La difficoltà di mettere la parola “fine”.
01/21/2023Io leggo, ma leggo proprio tanto. Divoro un po’ di tutto dalla saggistica, ai romanzi, ai gialli, ma soprattutto leggo manga e fantasy. Datemi un’ambientazione fantasy, un vampiro o due, qualche dramma e quel libro ve lo divorerò in una giornata (sì, anche se sono libri estremamente lunghi!)
Ricordo ancora quando è esploso il boom dei vampiri con Twilight, una saga che al tempo ho apprezzato e trovato divertente seppure preferisca la tradizionale figura di vampiro che incenerisce al sole. In quel periodo sono esplose saghe di vampiri una dietro l’altra come se prima di allora non esistessero – la Rice?
Comunque, finii “invischiata” in una saga libraria che ancora oggi perdura: La Confraternita del Pugnale Nero di J.R Ward.
Al momento si contano 20 libri della serie principale, più alcune novelle, spin-off e libri riguardanti la BDB Legacy. Dico subito che questa serie mi è piaciuta moltissimo. Non ricordo chi mi “spinse” a comprare il primo libro, Il Risveglio, edito da Rizzoli, ma sta di fatto che lo divorai. Aspettavo il libro successivo quasi come un’ossessione, volevo sapere cosa succedeva dopo, quale nuova avventura mi aspettava e come se la sarebbero cavata i Fratelli, ma soprattutto i Bastardi.
Bene, a distanza di alcuni anni direi che forse è giunta l’ora di concluderla questa fortunata serie, non trovate? Ho concluso da poco la lettura di Love Arisen e ho fatto non poca fatica. Certamente sono cambiata, non sono più l’universitaria che leggeva per evadere da leggi e decreti, ma ho trovato quest’ultimo libro – e quelli precedenti – estremamente noioso.
Ricordo che leggevo i personaggi della Ward con estremo interesse perché erano ben descritti, ben strutturati con solide storie e trame. C’era il cattivo, c’era l’eroe e anche l’eroina, qualche dramma ben orchestrato, il punto di rottura e, spesso, il lieto fine. Queste caratteristiche permangono anche negli ultimi libri, ma manca quel quid che davvero li rende interessanti. Ecco che qui si innesta il mio intervento: perché non usare la parola fine? Sì, proprio fine come accadeva un tempo a conclusione di un manoscritto o di un film.
I più cinici di voi diranno che è un motivo puramente economico e forse è vero. Però la fedeltà al lettore? Ecco forse talvolta gli autori dovrebbero pensare anche ai propri lettori e non soltanto alle proprie tasche. Perché vedete da lettrice la cosa che più mi ferisce è vedere personaggi finire snaturati, compiere azioni non in linea con quello che è il loro carattere o diventare politicamente corretti a scapito di trama, interazioni, verosimiglianze varie con la storia stessa.
Ho fatto riferimento alla saga di J. R. Ward perché è uno degli ultimi libri che ho letto, ma ci sono tante altre casistiche in cui la saga avrebbe dovuto vedere la fine.
E non solamente nei libri, ma anche le serie televisive sono costantemente portate all’eccesso. Shonda hai ideato una serie tv accattivante che denuncia molti dei problemi che affliggono la sanità americana, ma non credi che dopo 19 stagioni sia il caso di darle un degno finale?
Talvolta concludere una storia, che sia tra le pagine di un libro o su uno schermo, può intimidire tanto da trascinarla nel tempo. Forse perché viviamo attraverso i personaggi stessi, forse perché la paura dell’ignoto è soverchiante o forse perché gli interessi in gioco sono troppi e troppo importanti. Eppure l’importanza della fine è primigenia. Così come per cominciare un’avventura occorre coraggio, lo stesso coraggio serve per finire qualcosa. Allora talvolta troviamolo il coraggio di mettere la parola fine a storie che oramai la conclusione l’hanno vista da tempo.

Ho imparato che è possibile cambiare idea. Anzi, fa bene.