Indossare

Indossare

03/21/2022 0 Di Lorenzo Di Matteo
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Indossare

1

Il vestito era davvero meraviglioso.

Un tubino nero, dalla sfumature scarlatte, come di vino rosso, si trovava all’interno dell’armadio, appeso ad una gruccia per abiti. Possedeva delle linee morbide, degli eleganti e sottili merletti sui lati della scollatura e una gonna aderente, lunga giusto uno spillo al di sopra del ginocchio. Il colore acceso gli donava una sensualità eterea e ammaliante, una sensazione di controllo sul mondo, e su sé stessi. Un abito impareggiabile, che svettava audace all’interno dell’armadio. Potevi passare delle ore a guardarlo e sarebbero sembrati solo pochi istanti, tanto sapeva catturare l’attenzione. Che fortuna aveva il possessore di quell’abito, a poter vestire una simile opera.

E c’era solo un piccolo problema.

Che a possedere quell’abito ero io, una giovane donna, di venticinque anni, in tuta larga e capelli raccolti, che guardava sgomenta un abito così elegante che mai mi sarei sentita in grado di comprare.

Solo a toccarlo potevi sentire un tessuto morbido ma resistente, di una qualità certamente costosa, palesemente al di sopra delle mie capacità patrimoniali.

Cosa ci faceva in quell’armadio?

Guardandolo, mi sforzavo di ricordare dove l’avessi preso, e con quale denaro innanzitutto.

Che fosse un regalo di qualche amico? Ma a pensarci bene, regalo o acquisto, mi sarei certamente ricordata di quell’abito, e non l’avrei lasciato nell’armadio a prendere polvere.

Probabilmente l’avrei venduto, non dando io stessa molta importanza all’abbigliamento. Ad entrare a casa mia, si è soliti vedere tute e abiti comodi adagiati alla rinfusa su ogni possibile piano rialzato e con accostamenti di colore che qualcuno di molto gentile definirebbe “audace”. Ed è così che ho sempre vissuto, giacché nella mia filosofia personale l’abito non fa il monaco, e se anche lo facesse, non ne sarei ugualmente interessata.

Ma quel vestito era diverso. Pareva chiedere di essere indossato, di supplicarmi quasi. Mi tirai gli occhiali su per il naso e incrociai le braccia.

Mentre lo tiravo fuori dall’armadio, pensai che non mi sarebbe mai stato bene con i ricci che avevo.

2

Non so bene spiegare la sensazione che provai, quella sera, mentre uscivo con indosso questo misterioso abito. Azzarderei che non ero in me, ma non è corretto: mi sentivo perfettamente cosciente, perfettamente a mio agio.

Quella sera non andai al solito locale che conoscevo, dove avrei trovato i miei amici di sempre. Andai invece in una rinomata discoteca, conosciuta in città per essere un perno sociale per incontri di ogni genere.

E io mi sentivo viva come non mai, pronta ad affrontare la serata. Dopo pochi minuti che oltrepassai la porta per entrare, ero già al centro dell’attenzione.

Una giovane donna con un abito meraviglioso. Una novella cenerentola, ma più aggressiva, una regina della notte. Una femme fatale ardente come una fiamma, si muoveva su una immaginaria passerella, le luci del locale ad illuminarne la silhouette.

Parlavo con gli sconosciuti con una sicumera che non mi apparteneva, bevevo fiumi di alcolici senza accusare nessun colpo, forse perché entrai nel locale già ubriaca di qualcos’altro.

Controllo, arroganza e fiducia in sé stessi: sul mio viso avevo uno sguardo ammaliante che non riconoscevo, eppure sapevo di essere non altri che io. E intorno a me uomini e donne di ogni tipo cercavano di rubarmi uno sguardo, che raramente andavo a concedere a chi quella notte si sentiva più fortunato degli altri.

Non me ne andai a mezzanotte. Non ci furono scarpette da abbandonare, e la mia macchina non stava per trasformarsi in zucca. Rimasi lì in quella discoteca finché la notte non lasciava il posto all’oro, ancorata in un sogno vivido che sembrava non finire.

3

Mi svegliai il pomeriggio del giorno dopo, di domenica, strabuzzando gli occhi e stiracchiandomi le braccia. Non avevo mai dormito così bene, così profondamente, e non mi ero mai sentita così carica di energia, come se il giorno prima non fosse accaduto nulla. Eppure l’abito misterioso giaceva su una sedia, perfettamente composto al di sopra degli altri indumenti in giro per la casa, come se quella sedia fosse il suo trono, a ricordarmi che ciò che era accaduto ieri non viveva solo nella mia testa. Sul comodino vi erano molti bigliettini, pezzi di carta, fazzoletti, biglietti da visita, ognuno con un numero diverso scritto sopra, ognuno con un nome diverso. Ancora immersa nelle coperte del letto, ne sfogliai qualcuno cercando di ricordare qualche viso dietro quei numeri, senza successo. Tutti gli avventori di quella discoteca apparivano nella mia testa come figure sfocate, fantasmi informi a cui ricordavo di aver dato troppa poca importanza per potermene tornare in mente qualcuno. Alcuni di essi avevano lasciato solo il numero, altri addirittura delle dediche sperando di spiccare tra tutte le proposte.

E poi, lentamente, mi accorsi di quello che era successo, e mi si infiammarono le guance dall’imbarazzo.

Che cosa avevo combinato? Ero forse impazzita? Solo a pensare alla sera prima volevo prendere a pugni le pareti di casa. Immersi la testa nel cuscino, spaventata all’idea che ieri sera fosse presente qualcuno che conoscevo, qualche collega di lavoro.

Mi alzai di scatto, presi il vestito dalla sedia e lo portai nell’armadio. Avevo intenzione di seppellirlo sotto una montagna di abiti; ironicamente, sarebbe stata la prima volta che avrei messo a posto i vestiti in un armadio, invece di gettarli a terra alla rinfusa.

C’era un altro abito. Un altro vestito, appeso alla sua gruccia, stavolta un abito completamente diverso.

Al contrario del tubino rosso, quello appeso era un tailleur elegante con giacca e camicia, una cravatta e un pantalone di tela fine. La camicia era bianca come il latte, minimale, con dei bottoni ambrati molto eleganti. La giacca e il pantalone erano invece blu come il cielo notturno, le linee del pantalone e del gomito rigide nell’aspetto, ma comode al tocco. La camicia era accompagnata da una cravatta argentea, che la divideva simmetricamente, e sembrava brillare di luce propria. Era il vestito a cui potevi e volevi affidarti, l’abbigliamento di un leader in prima linea, per chi era costantemente impegnata a raggiungere la vetta. L’eleganza brutale di chi si staglia su pavimenti specchiati, camminando in avanti anche nel caso il mondo si fermasse.

E ovviamente, quell’abito non era mio. Non avevo memoria da dove fosse uscito e indossarlo poteva voler dire ritrovarsi in una situazione di cui non avrei avuto il controllo. Ero stata fortunata ieri sera, riprovarci sarebbe stato pericoloso. Questo pensai, mentre le mie mani, in automatico, tirarono fuori il nuovo vestito dalla sua gruccia.

4

La mia occupazione consisteva in un semplice lavoro di ufficio. Gestivo gli ordini di un’azienda commerciale che si occupava di esportazione di elettrodomestici. Non era un lavoro appagante, ma non era neanche faticoso, e riuscivo a tirare avanti con quello stipendio.

Quella mattina, col nuovo abito indosso, entrai in quell’edificio come dipendente. Nel pomeriggio, ne uscì come amministratore.

Avevo fiumi di idee su come migliorare profitti e evitare spese superflue, e sapevo spiegare ogni concetto con una superba dimostrazione di oratoria. Camminavo negli uffici dei miei responsabili come se l’edificio fosse di mia proprietà, ed ero così brava a discorrere che non incontravo resistenza ad ogni idea che esponevo. Nel giro di poche ore conducevo il posto come un direttore d’orchestra, e quelli che erano i miei colleghi ora erano diventati i miei dipendenti.

Sembrava che tutto dovesse andare come avevo già preventivato, e non c’era la minima preoccupazione nel mio sguardo: ero un busto greco, glaciale, inamovibile, a cui potevi aggrapparti e non si sarebbe mai piegato.

Non ero sorpresa poi quando, tornando a casa per riporre l’abito, ne trovai altri. Vi era addirittura un pigiama, con cui passai le notti più rilassanti della mia vita, e altri tipi di pigiami, più attillati, con cui invece passai le notti più accese in compagnia. Abiti per le serate di gala, elegantissimi, brillavano come una stella appena nata, abiti da palestra, resistenti e comodi, con cui avrei potuto correre per giorni, abiti da concerti, con cui rubavo la scena ai miei idoli che cantavano sopra ai palchi. Ne erano a centinaia, tutti diversi, tutti bellissimi.

E una sera, vidi l’abito più bello su cui i miei occhi abbiano mai posato lo sguardo. Era un vestito cristallino, bianco come la neve in tempesta, sinuoso come la spuma del mare. La gonna sembrava un velo che brillava di luce riflessa, un abito lungo, che si apriva sull’interno coscia come il petalo di un fiore.

Cercai di raggiungerlo con la mano, ma era troppo lontano. Mi sporsi, sempre di più. E senza accorgermne cominciai a camminare verso di esso.

Quell’abito non avrebbe avuto solo una specifica funzione: sarebbe stato l’abito di una dea, pensai che vestendolo sarei ascesa nell’empireo.

Guardandolo, si accese qualcosa in me. Una sensazione.

La sensazione di qualcosa di buffo, su come cambiano le cose. Non ero interessata ai vestiti, e adesso ne ho fatto il perno della mia vita. E non mi sono mai interessata a capire da dove venissero, illudendomi continuamente che fossero dei regali, o degli acquisti dimenticati. Così, per centinaia di abiti. Centinaia, migliaia di abiti. Tutti contenuti in un singolo armadio.

Gli abiti mi erano stati regalati, e io li avevo messi nell’armadio. Quando tutto ciò che facevo era gettarli a terra, alla rinfusa, in un accostamento di colori che qualcuno di molto gentile definirebbe uno strazio per gli occhi.

Forse avrei dovuto chiedermi piuttosto, perché avevo un armadio dove riporre gli abiti. L’avevo comprato? Era un regalo da parte di amici?

Credo che l’avrei giustificato ugualmente. Vestiti così belli, capaci di farti splendere come il cielo stellato. Forse era arrivato il momento di pagarli.

Avevo brillato così tanto, che quando le ante dell’armadio si chiusero con un tonfo secco alle mie spalle, sigillandomi al suo interno, mi sembrò normale restare per sempre nel buio.

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